Non c’è visitatore che, oltrepassata la prima sezione del Museo dedicata all’attentato di Sarajevo, non rimanga a bocca aperta trovandosi al cospetto di un “gigante” dell’artiglieria italiana della Grande Guerra: l’obice Armstrong-Pozzuoli da 305/17 su affusto a piattaforma mod. Garrone. All’epoca fu il pezzo a tiro curvo di maggiore potenza e, per ampiezza dei settori di tiro in elevazione e direzione, per efficacia distruttiva del suo proietto, precisione di tiro e gittata, rappresentò la più valida bocca da fuoco pesante d’assedio del Regio Esercito. Considerato il migliore del suo calibro e superiore al mortaio austriaco da 305 per gittata e letalità delle munizioni, era tuttavia più pesante, voluminoso e più difficilmente movibile.
Il suo studio ebbe inizio nel 1908: richiesti progetti a varie ditte, il modello più efficace risultò essere quello – datato 1909 – della Società Armstrong di Pozzuoli, filiazione della casa madre inglese. Fu così che nel 1914 l’imponente bocca da fuoco da 305 mm, lunga 17 calibri, entrò regolarmente in servizio. Nel corso degli anni furono apportate modifiche e innovazioni e dal 1917 l’obice iniziò a essere prodotto anche dalla fabbrica di artiglierie Vickers-Terni di La Spezia.
Per il traino il pezzo veniva scomposto in quattro parti posizionate su carri ruotati trainati da trattori Pavesi-Tolotti e più tardi anche dai Breda TP 32: pertanto un carro trasportava l’obice, il secondo l’affusto, un altro ancora la piattaforma e l’ultimo era il carro gru per la messa in batteria del pezzo con il cassone-vomero piramidale.
I carri, con il loro carico ma senza cingoli, pesano rispettivamente 17.500, 14.500, 7.870 e 7.850 kilogrammi e hanno una lungheza di m 9,70, 8,20, 8,40 e 8,60. La loro larghezza, sempre sovraccaricati, è di circa m 2,40 mentre l’altezza è compresa tra i m 2,05 e i 3,10.
Oltre ai trattori per le suddette vetture ce n’erano altri al seguito, attrezzati con i materiali per le manovre di forza, le rotaie a cingolo, le munizioni, le dotazioni e gli accessori vari.
Il tempo medio per le operazioni di messa in batteria in terreni di media consistenza era di circa quindici ore, sei delle quali impiegate per scavare una buca di forma quadrata di tre metri di lato e profonda uno e mezzo: in essa veniva affondato il cassone-vomero sopra il quale era sistemata e ancorata la piattaforma. Su quest’ultima poggiava l’affusto ruotante: l’affusto Garrone constava di culla, manicotto con orecchioni e di un congegno di elevazione che poteva spostare culla e obice per un settore verticale di tiro fino a + 65° da qualsiasi angolo di inclinazione. Il settore orizzontale di tiro era di 360°.
La squadra di servizio era costituita da un capopezzo, undici serventi e un operaio di artiglieria. In batteria il pezzo pesava circa 33.800 kg, sparava vari tipi di proietti in ghisa acciaiosa o d’acciaio del peso non superiore ai 442 kg e a una distanza massima di 17.600 metri e a una velocità iniziale di 545 metri al secondo. La cadenza di tiro normale era di un colpo ogni 12 minuti, quella massima di un colpo ogni 5.
Per comprendere quali siano, in generale, le caratteristiche di un obice, si forniscono alcune indicazioni di massima. L’obice, per dimensioni e peculiarità sta tra il cannone e il mortaio, riunendo, sotto certi aspetti, le qualità dell’uno e dell’altro: derivò, infatti, dall’esigenza di disporre di una bocca da fuoco che possedesse la capacità di penetrazione del cannone e potesse operare con le traiettorie molto alte di tiro tipiche del mortaio, utilizzando, per lo più, munizionamento esplosivo o incendiario. Risponde, quindi, alla necessità di eseguire tiri in arcata contro bersagli riparati dalla vista – fortificazioni, trinceramenti e posizioni difensive particolarmente defilate – usando proietti più pesanti e potenti di quelli dei cannoni. Il suo tiro può scavalcare pressoché tutti gli ostacoli topografici o artificiali, permettendo di ridurre quasi totalmente gli angoli morti di ricaduta e di rendere praticamente vano qualsiasi defilamento. L’obice, a differenza del mortaio, può avere maggiore gittata e agire oltre che con il tiro curvo, anche con l’urto e la penetrazione del proietto, il quale arriva al bersaglio animato ancora dalla velocità impressa dalla carica di lancio, che, unitamente al suo peso, aumenta sensibilmente l’effetto di distruzione.
Ritornando alla produzione del pezzo da 305/17, agli inizi dell’autunno del 1917 ne erano disponibili trentotto esemplari, ridotti a ventinove dopo la disfatta di Caporetto (24 ottobre 1917) tanto che, tra il mese di luglio del 1918 e il giugno successivo, ne sarebbero stati costruiti ulteriori diciotto.
Cinque esemplari furono ceduti nel 1937 all’esercito del Generale Franco in Spagna, altri parteciparono all’attacco contro la Francia del 1940 sulle Alpi occidentali. Nel prosieguo del Secondo conflitto mondiale gli obici ancora disponibili vennero impiegati come pezzi da difesa costiera schierati presso il lido di Roma e i porti di Napoli, Catania, La Spezia e La Maddalena.
Alcune bocche da fuoco rimasero in servizio anche dopo la fine della guerra, finché vennero tutte radiate nel 1959.
L’esemplare esposto nell’hangar 3, prodotto nel 1918, è un pezzo unico che Diego de Henriquez riuscì a recuperare probabilmente a Verona: la bocca da fuoco riporta il numero 3520, la matricola della canna è 28279, l’affusto ha il numero 28210, la rigatura della canna stessa è sinistrorsa e composta da sessanta righe. Sembra dovesse essere impiegato anche per alcuni studi di artiglieria riguardanti l’utilizzo di “proiettili a razzo”.
Possiamo solo in parte immaginare lo stupore e l’immensa gioia di de Henriquez quando comprese di aver assicurato alle proprie collezioni un obice del genere, quel sorprendente “gigante” che – tra l’altro – gli avrebbe permesso di sviluppare uno dei temi a lui cari, ovvero il confronto tra la tecnologia bellica e quella civile, rilevando come la prima, in ogni epoca, fosse sempre un passo avanti rispetto all’altra. Anche se non ne siamo perfettamente consapevoli, ancora oggi è così: l’uomo preferisce destinare risorse e ingegno per la costruzione e il perfezionamento di macchine offensive piuttosto che concentrarsi nella realizzazione di strumenti di pace utili alla collettività e al miglioramento delle condizioni di vita.
Chissà che il tempo presente, segnato dalla “micidiale arma” Covid-19, non riesca a invertire tale tendenza.
Alcuni dati sono tratti dalla rivista del Gruppo Modellistico Trentino di Studio e Ricerca Storica di Trento: “Notiziario modellistico” n. 3/96, p.16-23.